Luigi Ghirri è da sempre il mio fotografo preferito, purtroppo è scomparso nel 1992, ma quest'anno avrebbe compiuto 70 anni e a Roma gli è stata dedicata una grande mostra nelle sale del Maxxi, dal 24 aprile al 27 ottobre. Farò di tutto per andarci e consiglio vivamente a chiunque di farlo. Ghirri è stato fra gli anni settanta e i primi novanta il più grande interprete di un paesaggio che nella semplice banalità di un linguaggio tecnicamente vicino a quello amatoriale, era tuttavia di una profondità estrema nella capacità di toccare corde che andavano molto al di là di quelle della semplice visione e composizione dei soggetti. Ghirri diceva che era necessario "guardare alla fotografia come a un modo di relazionarsi col mondo, nel quale il segno di chi fa fotografia, quindi la sua storia personale, il suo rapporto con l'esistente, è sì molto forte, ma deve orientarsi, attraverso un lavoro sottile, quasi alchemico, all'individuazione di un punto di equilibrio tra la nostra interiorità e ciò che sta all'esterno." Parlando della crisi che a suo modo di vedere la fotografia stava attraversando all'inizio degli anni novanta Ghirri usò, durante una lezione a degli studenti, parole che oggi fanno impressione (a me), disse che "il passaggio che aveva inserito la fotografia in un circuito pericoloso era stato quello della diffusione della macchina reflex, perchè si è attuata una grande semplificazione che ha cancellato molta professionalità e ha tolto molta profondità al guardare."
Penso a lui ogni volta che "gioco" con Instagram.
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