Al netto di tutta la retorica che viene
riversata ogni anno in occasione di questa giornata, delle candeline
accese, delle visite ai luoghi della memoria, dei passaggi televisivi
di film iconici,ma in qualche modo filtrati o depurati dalla
necessaria finzione narrativa, continuo a pensare che le parole dei
testimoni sopravvissuti all'esperienza spaventosa e razionalmente
indescrivibile della Shoah, lette o ascoltate rappresentino ancora e
sempre la forma più efficace di trasmissione della memoria. Secondo
Rachel Ertel, una delle più importanti studiose viventi di cultura
ebraica e yddish la scrittura dei sopravvissuti dei campi di
concentramento nazisti è “insieme un doloroso sforzo di
anamnesi e di veggenza che mescola ricordi reali e immaginari al mai
visto e al mai detto”. Primo Levi aveva scritto che loro, i
sopravvissuti, altro non fossero che falsi testimoni; i veri di
quell'esperienza non potevano essere che i morti. Questa sua frase è
una di quelle che fanno gioco ai negazionisti, a coloro che
continuano a gettare l'ombra del sospetto e ad avvolgere in una
cortina di fumo quegli eventi sempre più lontani. Ma d'altra parte
lo stesso Levi sapeva perfettamente che solo i vivi possono
testimoniare e lui stesso non avrebbe scritto le pagine che ha
scritto se fosse stato davvero convinto di essere un falso testimone.
Primo Levi visse la sua vita dopo quell'esperienza tormentato dalle
ombre, forse dallo stesso senso di colpa provato da molti di quelli
che non seppero dare risposta alla domanda “perchè io no”. La
sua fine tragica è l'evidenza di qualcosa che chi non ha vissuto
quell'esperienza non può neppure immaginare. La verità è che in un
vicinissimo futuro non esisterà più una memoria personale dei campi
e nessuno potrà più ascoltare la voce diretta di qualcuno che
descrive l'orrore delle baracche, delle infermerie, del lavoro nei
campi, dell'odore di morte percepibile a chilometri di distanza dai
forni crematori, della cenere che pioveva dai camini. Probabilmente
allora solo la finzione narrativa, letteraria o cinematografica sarà
in grado di perpetuare la memoria, con tutti i rischi che ne
conseguono. Ma a prescindere dalle distorsioni che un simile trauma
possa aver provocato sulla mente di chi ne è stato protagonista e
sulla sua memoria poche cose sono efficaci come il racconto di
un'esperienza diretta, come quella per esempio che vissero i
sopravvissuti agli esperimenti del dottor Mengele ad Auschwitz. I
nazisti videro in Auschwitz un luogo perfetto per esperimenti sugli
esseri umani, nessun limite etico, nessuna responsabilità. La
personalità di Mengele, appassionato al mistero dei gemelli e
affascinato dall'idea di essere padrone della vita delle persone,
impersona perfettamente la crudeltà che fu nutrita dalla mistica
della razza superiore ariana. Joseph Mengele morì in Brasile nel
1979 da uomo libero senza aver mai pagato per le sue colpe e ancora
fedele al suo credo nazista. Nel 1985 fu processato in contumacia in
Israele senza ancora che si sapesse che era già morto, in quella
occasione fu possibile ascoltare direttamente le testimonianze di
alcuni sopravvissuti ai suoi esperimenti. Ne citerò solo un paio.
Elena Hammeresh arrivò ad Auschwitz
dall'Ungheria nel dicembre del 1943, queste le sue parole: “Mengele
era solito venire ogni tanto alla baracca dei gemelli, prenderne una
coppia e, con un pretesto, portarla direttamente al forno crematorio.
Qui li uccideva con iniezione di fenolo al cuore. Squartava poi il
loro corpo ancora caldo e immergeva gli organi in sostanze chimiche
che poi spediva in Germania alle università. Mengele fece degli
esperimenti sugli occhi dei bambini. Oltre alle gocce, che egli
inoculava loro regolarmente, fece delle iniezioni direttamente nelle
pupille. I bambini sottoposti a questi trattamenti persero la vista e
morirono quasi tutti. Gli occhi venivano poi asportati e inviati in
Germania (…) Le ricerche di Mengele riguardavano la genetica
ereditaria e avevano lo scopo di scoprire il modo di riprodurre e
moltiplicare la razza ariana, per questo faceva esperimenti sui
gemelli.”
Vera Kriegel arrivò
ad Auschwitz all'età di cinque anni nel 1943:
“Mengele ci fece mettere da parte
perchè vide che poteva fare su di noi degli esperimenti. Camminavamo
senza sapere dove stavamo andando. Ero molto confusa. Ero molto
piccola. A un certo punto vidi una grande buca dove ardeva del fuoco,
dove buttavano i bambini piccoli che erano stati strappati alle loro
madri. Li gettavano vivi nelle fiamme. Le SS rompevano i crani dei
bambini con il calcio dei fucili e facevano a pezzi i cadaveri come
se fossero polli. Io vidi tutto questo con i miei occhi. Quando vidi
le fiamme pensai di essere morta, forse all'inferno, circondata da
fantasmi, pensai di essere in uno zoo. Ero una bambina piccola,
confusa, non piansi.
Lo sterminio degli ebrei d'Europa è stato qualcosa di enorme,
indescrivibile, ma di cui non mancano tracce e memoria. Ecco, io
spero che tutti quelli che oggi scriveranno generici messaggini di
ricordo, partecipazione e solidarietà non si limitino a questo, ma
si informino, leggano, ascoltino e che lo facciano sempre. La memoria
è una pianta che avvizzisce rapidamente se non coltivata con cura.
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